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FINO ALLA FINE DEL MONDO
(BIS ANS ENDE DER WELT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 gennaio 1992
 
di Wim Wenders, con William Hurt, Solveig Dommartin, Jeanne Moreau, Max von Sydow (Germania, 1991)
 
Il viaggio, la migrazione, la famiglia, il ruolo dell'artista nella società sono i temi ricorrenti nell'opera di uno dei più celebri registi del cinema moderno. Ad altri guai epocali più ricorrenti (il nucleare, l'ecologia). Wim Wenders ha aggiunto di recente quello del destino di quell'immagine che sta alla base del suo mestiere. Un'immagine abusata, sempre più corrotta. Incapace di raccontare qualcosa: e privata ormai di quel potere d'illusione, di verità oggettiva, che la propria specificità avrebbe dovuto garantirgli. Inseguite, incalzate fino alla fine del mondo, le immagini non possono ormai che rivelarsi nella loro perversione: una sorta di male mabusiano (l'universo di Fritz Lang è fra le tante citazione ed autocitazioni del film), il segno tangibile della nostra regressione.

Mettere tutto ciò in un film, anche in un film meditato per 14 anni, girato in tre per tutto il mondo, montato dapprima in nove, poi in sei (in una versione "definitiva" che dovrebbe uscire fra qualche tempo) infine in tre ore, non è cosa da poco. Anche per la generosità di Wim Wenders. FINO ALLA FINE DEL MONDO denuncia questa sua genesi, forse troppo ambiziosa, sicuramente laboriosa. È come tagliato in due: una prima parte, che è una specie di thriller fantascientifico di serie B, un po' BLADE RUNNER e un po' ALPHAVILLE, ma con la fede in meno: attraverso Venezia, Parigi, Lisbona, Berlino, Mosca, Tokio, San Francisco e altro ancora. Squarci, situazioni per istanti intuite ed incantate: se non proprio dai personaggi (e dagli spettatori) che faticano a raccapezzarsi, perlomeno dal talento del cineasta. Sono luoghi per eccellenza wendersiani: ma i riferimenti (primo fra tutti quello eccessivamente sottolineato al grande maestro Ozu) non solo si sprecano, ma stentano a risolversi in uno stile da commedia burlesca, da pastiche referenziale hollywoodiano che s'intuisce occasionalmente, e che forse avrebbe fatto al caso.

Resta la seconda parte. William Hurt approda in Australia,sempre inseguito da Solveig Dommartin che dovrebbe essere una Penelope stavolta sempre dietro al suo Ulisse: certo lei non sa che il maschio wendersiano teme le donne, figuriamoci le donnone. Ciò che avrebbe però dovuto intuire è che al nostro, ormai più Edipo che Ulisse, preoccupano altre cose: raggiungere nel deserto la famiglia, onorare il padre e restituire alla madre cieca il potere della vista. Grazie ad una sorta di telecamera (siamo nel 1999), che utilizzata con il computer di papà riesce a riprodurre le immagini riprese durante il viaggio: scomposte e ricomposte dalla memoria, direttamente nelle cellule cerebrali altrui senza bisogno di quel tramite sempre opinabile che è l'occhio, immagini del persone più care, o quelle colte, splendenti della memoria collettiva, come quelle del ritratto in blu ed oro di Vermeer che Wenders si diverte a plasmare davanti ai nostri occhi affascinati.

Ma c'è un guaio, poiché sennò non ci sarebbe un film: assieme alle immagini della memoria, anche i sogni vengono risucchiati. Con quali conseguenze - di perversione, di dipendenza - vi lascio immaginare.

È proprio qui, in questo rapporto di amore-odio con le immagini video avvelenate che gli servono pur sempre da giocattolo, che il film si fa, per qualche istante, grande. E lascia intravedere quale sorta di meditazione avrebbe potuto essere: su tutta la fatica che costa a scavare in quell'immagine, ad accedere a quel Sacro, a quella Grazia. Su tutti i meriti di quella fatica, di quella riflessione, di quell'esitazione creativa che l'abboffata d'immagini che stiamo vivendo sembra aver precluso per sempre.

È l'aspetto più curioso, paradossale, ed il solo commovente di FINO ALLA FINE DEL MONDO: pasticciando genialmente proprio quell'immagine (soprattutto video) che gli appare ormai inservibile, Wenders risuscita e ricompone quell'emozione che pareva prosciugata in un'impresa più grande di lui. Occupandosi degli attori, del suo melodramma, della sua filosofia un po' spicciola, degli aborigeni buoni poiché intatti, il film gli si ritorce contro.


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